L’impianto argomentativo della sentenza assolutoria di Calogero Mannino smantella la costruzione accusatoria della cosiddetta trattativa stato-mafia. Da coautore (insieme con Salvatore Lupo) di un saggio critico sull’argomento, pubblicato da Laterza due anni fa, potrei molto compiacermene e andare alla ricerca delle coincidenze tra i miei argomenti critici e le ragioni poste a fondamento della sentenza del giudice Marina Petruzzella. Ma rinuncio a questa esercitazione perché, oltretutto, considero la Trattativa un tema ormai archiviato (i miei attuali interessi di studioso si rivolgono ad altro). Piuttosto, ritengo opportuno richiamare qui l’attenzione sull’atteggiamento del sistema mediatico rispetto al processo sulla Trattativa, che si è andato caratterizzando secondo movenze tali da confermare in maniera emblematica una relazione gravemente patologica, una sorta di perversione sistemica, riscontrabile da qualche decennio nel contesto italiano: alludo, com’è facile intuire, alla relazione incestuosa tra buona parte dei media e gli uffici di procura. E’ un dato di fatto inconfutabile che il processo-trattativa costituisce una esemplificazione straordinaria di un processo inscenato nei media e potentemente alimentato da stampa e televisione, specie nelle sue fasi iniziali: con un bombardamento informativo continuo e drammatizzante, tendente ad assecondare come verità assodata ipotesi accusatorie ardite e basate (tanto più all’inizio) su teoremi storico politici preconcetti, affondanti le radici in “precomprensioni” soggettive e – purtroppo – costruiti anche in vista del perseguimento di impropri obiettivi lato sensu carrieristici.
Certo è che senza la grancassa televisiva, fatta di acritico sostegno e di facile suggestione per il sensazionalismo complottistico, il processo sulla Trattativa non avrebbe avuto la stessa parvenza di legittimità e la stessa risonanza. Ma la responsabilità non è tutta del sistema mediatico. Come in ogni relazione bilaterale, le colpe vanno ricercate sul versante di entrambi i protagonisti: sono infatti stati molto abili anche i magistrati d’accusa a sfruttare le risorse della televisione come palcoscenico in cui dare suggestivamente per dimostrata una indecente Trattativa ancora tutta da dimostrare nelle aule di giustizia. Per scienza privata, maturata in una consuetudine ormai lunga di studioso col mondo della giustizia penale, so che qualche pubblico ministero considera più rilevante, in vista del successo di un’indagine o di un processo, l’efficacia della narrazione mediatica rispetto alla stessa fondatezza giuridica della tesi accusatoria. Da qui anche la tendenza a privilegiare l’intervento o l’intervista giornalistica, come sede decisiva di discussione, rispetto alla più tradizionale dissertazione nelle riviste giuridiche specialistiche: con quanto impoverimento e banalizzazione delle questioni di diritto sul tappeto è facile immaginare!
A sostegno dell’esigenza di mediatizzazione, qualche pubblico ministero ritiene perfino che il processo penale abbia scopi che trascendono l’accertamento dei reati e l’eventuale condanna, rientrando tra i suoi presunti obiettivi legittimi – tra l’altro – la ricostruzione degli eventi storico-politici, siano o meno ravvisabili ipotesi criminose: anzi, un procuratore aggiunto di Palermo ha esplicitamente sostenuto che il magistrato d’accusa è in condizione di ricostruire la storia meglio di uno storico di mestiere grazie al fatto che il magistrato dispone di strumenti coercitivi di accertamento della verità di cui lo storico non può disporre.
Una tesi, questa, che non credo abbisogni di particolari commenti.
Dopo l’enorme suggestione creata intorno alla Trattativa in particolare dalla televisione, l’attenzione mediatica è però andata progressivamente attenuandosi man mano che il castello accusatorio ha cominciato a sbriciolarsi per effetto dei colpi inferti dalla duplice assoluzione del generale Mori in due processi paralleli per favoreggiamento pur sempre inquadrabili entro il presunto ampio orizzonte trattativistico. Queste assoluzioni, indigeste per quanti avevano mediaticamente enfatizzato il turpe patto stato-mafia o vi avevano creduto in buona fede, hanno finito non a caso con l’essere relegate nelle ultime pagine di cronaca o tra le notizie del tutto secondarie da contenere in smilzi trafiletti.
Un fenomeno analogo, e forse ancora più marcato, si sta verificando in occasione della netta smentita della Trattativa nel primo processo tutto incentrato su di essa. Della recente assoluzione di Mannino, ad esempio, un giornale come il Corriere della Sera non risulta sino ad ora abbia dato alcuna notizia di rilievo. Repubblica invece, pur essendosi distinta fra i quotidiani che più hanno pompato il processo palermitano, ha dedicato il giorno dopo alla pronuncia del gup due articoli (uno collocato tra le ultime pagine della cronaca nazionale e l’altro in quella locale), ma in termini piuttosto sobri, quasi a voler ridimensionare la plurima valenza dell’evento assolutorio. O per la stessa Repubblica la vicenda-trattativa non merita più grande attenzione perché reputata priva ormai di vitalità giudiziaria e quindi morente? Quanto poi al Fatto quotidiano, il più dogmatico ed entusiasta fiancheggiatore dei magistrati d’accusa, non sorprende che abbia mostrato ancora più self restraint, non solo allontanando la notizia a pagina 12, ma preoccupandosi di avvertire – che cronista scrupoloso! – che il testo di sentenza pubblicato è pieno di refusi e imprecisioni ancora da correggere. Questa avvertenza sottende, forse, la speranza che la sentenza in veste definitiva possa risultare meno critica nei confronti dei pm?
Come osservatore delle patologie della giustizia penale, auspicherei che il processo sulla Trattativa diventasse un oggetto esemplare di studio all’interno di un laboratorio multidisciplinare competente a formulare diagnosi approfondite e a fornire indicazioni terapeutiche: allo scopo innanzitutto di recidere i mostruosi intrecci che da anni legano informazione e giustizia, e ciò sino al punto che hanno finito col riscuotere populistico credito organi di stampa pregiudizialmente vocati a operare come “gazzetta delle manette” (e sui quali, aggiungo incidentalmente, scrivono o rilasciano interviste anche illustri magistrati, senza peraltro porsi il problema se sia opportuno alimentare uno stile informativo che tiene programmaticamente in dispregio fondamentali garanzie costituzionali a tutela di ogni persona umana, indagati e imputati compresi).
Detto in altre più semplici parole: sarebbe finalmente il caso di prendere spunto dal processo sulla Trattativa per processare larga parte del sistema mediatico; ma sarebbe, nel contempo, auspicabile che siano i giornalisti a fare autocritica e a processare se stessi. In vista di un recupero della funzione critica della stampa e della capacità di indagare autonomamente sui fatti, senza essere servi sciocchi o interessati delle iniziative non sempre ponderate delle procure.
Giovanni Fiandaca, Il Foglio del 3 Novembre 2016